Storia
Dopo gli anni '50 Teofilo Otoni subisce una forte immigrazione dalle campagne. La quasi totalità delle persone arrivate è in condizioni di assoluta povertà. Non trova lavoro perchè la città è priva di industrie, non trova casa perchè l'edilizia non si sviluppa se non c'è chi può pagare affitto o comprare. Si vive di espedienti e di lavoretti. Si creano le prime favelas, che arrivano ad essere una trentina. La casa viene costruita con mattoni in terra cruda, senza fondamenta, sui ripidi fianchi della collina, su terreno argilloso. In genere si tratta di un piccolo vano che ospita l'intera famiglia. Chi non ha neppure la possibilità di costruirsi queste casette vive in baracche, fatte con materiali di recupero. Per decenni queste favelas sono prive di luce, di acqua e di fognature.
Proprio per affrontare il problema della casa a Teofilo Otoni, nei primi anni '80, Don Giovanni Lisa ed altri missionari italiani della diocesi di Alba, che si erano già da qualche anno stabiliti proprio a Teofilo Otoni, si attivano per aiutare la gente a costruirsi la propria casa, mettendo a disposizione il terreno della Chiesa e procurando i materiali di costruzione.
Viene proposto alle famiglie di unirsi: nasce così il "mutirao" del quartiere Vila Esperança. Si comincia con 30 famiglie divise in gruppi di 6. Si lavora la domenica. Si formano i blocchi di sabbia e cemento con una speciale macchina. Tutto il gruppo costruisce le 6 case senza sapere in quale abiterà : alla fine si sorteggia. Non tutto risulta facile, ma si procede. Mentre crescono le case si costruiscono anche nuove relazioni umane; migliora la conoscenza, la solidarietà, la condivisione, nasce la comunità . Dal terreno donato dal Vescovo vengono ricavati 220 lotti. Alcuni di questi vengono lasciati liberi per strutture comunitarie (asilo, negozi). Il quartiere di Vila Esperança indica la via per un problema che in città resterà enorme ancora per molti anni.
La condizione di vita delle famiglie e la mancanza di prospettive per i giovani sono allarmanti. La loro formazione è dispersiva e marginale. Per la maggioranza dei ragazzi i lavori più comuni sono: lustrascarpe, facchini di mercato, lavaggio auto, e lavori simili. Ancor più frequentemente non hanno nessuna occupazione: scendono nelle strade, chiedono l'elemosina, cercano nei rifiuti per trovare avanzi di cibo. Sono le vittime della disgregazione sociale ed economica: sono i "meninos de rua". Senza, o con scarsi riferimenti famigliari, vivono in piccoli gruppi e molti non tornano a casa neanche per dormire. Molti di loro non sono neppure registrati all'anagrafe: la tassa di registrazione è già troppo alta per chi non ha nulla.
La costituzione brasiliana prevede l'obbligo scolastico fino ai 14 anni, ma il 30% dei bambini non frequenta la scuola. Ci sono due cicli scolastici: quello di 1° grado e quello di 2° grado. Il primo ciclo (obbligatorio) comprende 8 classi suddivise ulteriormente in 2 cicli: 4 anni di primaria e 4 di secondaria (paragonabili alle elementari e alle medie italiane). La frequenza è discontinua, e l'abbandono molto frequente. Le scuole pubbliche non sono sufficienti ed il livello di preparazione degli insegnanti è molto basso, così come il loro salario.
Per le persone delle favelas la situazione sanitaria, sempre negli anni '80/'90, è estremamente carente: ci sono pochi medici pubblici, e purtroppo di pessima qualità : visitano 15/20 pazienti in un quarto d'ora. Non esistono le visite a domicilio e le attese per un esame sono estenuanti. Le medicine gratuite spesso sono esaurite e quelle a pagamento sono fuori dalla portata economica: le farmacie offrono pagamenti rateali, anche per valori minimi. Le pessime condizioni igieniche delle case, la povertà di alimentazione, la mancanza di acqua, la promiscuità in cui si vive, favoriscono il diffondersi di ogni tipo di malattie, in particolare quelle trasmissibili.
La presenza dei missionari italiani è fondamentale per queste persone: è conforto, accoglienza, ma anche supporto, aiuto economico, incoraggiamento ad intraprendere la via politica per rivendicare i propri diritti, è voce per chi non osa parlare. E' aiuto ad organizzarsi in movimenti sociali, a crescere nella consapevolezza di cittadini. Si formano i primi leaders di comunità : persone semplici, che vivono come gli altri in mezzo agli altri, ma che credono nel cambiamento, che vivono la speranza di un sogno realizzabile: una vita degna per tutti.
E' in questo contesto che nei primi anni '90 due sacerdoti di Torino, accompagnati da qualche amico arrivano in visita al gruppo dei missionari di Alba, Don Lisa, e i suoi confratelli Don Tibaldi, Don Grillo, Don Burzio. Sono Don Sergio Messina e Don Gianmario Negro ed alcuni volontari dell'Associazione L'Accoglienza. Avevano il desiderio di aprirsi al mondo, non solo alla loro realtà torinese, e si erano guardati intorno. Avevano sentito parlare di Teofilo Otoni e di altre cittadine del circondario e sono andati a vedere con i loro occhi. Hanno visto ben più di ciò che ci si immagina prima di partire per un viaggio di questo tipo, perchè la realtà è sempre più sferzante. Hanno capito che non si può deviare lo sguardo e così decidono di impegnarsi. Tornano a casa, e da quel momento si inizia una catena di solidarietà che ancora oggi unisce Torino a Teofilo Otoni.
Si danno avvio alle prime adozioni a distanza, e con esse si sostengono i progetti educativi e sanitari delle suore della Congregazione della Neve di Savona e quelli della cooperativa APJ (Apejota), avviata da Don Lisa.
Si iniziano i viaggi dei primi volontari: medici ed infermieri che vanno a trascorrere le loro tre/quattro settimane di ferie per portare la loro professionalità a chi raramente vede un medico chinarsi su di loro, per portare medicine a chi non può pagarle, o anche solo un sorriso, uno scambio, la condivisione di un momento. Nasce così, staccandosi dal gruppo originario L'Accoglienza, l'associazione "Ate logo" (arrivederci), perchè è questo il saluto con il quale i volontari prendono commiato, sperando di poter tornare in questa terra, tra queste persone che ti segnano profondamente.
E' un arrivederci all'anno prossimo, al periodo delle ferie, ma spesso passano mesi prima che altri volontari arrivino. Manca la continuità . Ma poi è arrivata anche questa. Nel 1995, arriva infatti una volontaria, Anna Maria Poggio, che ha deciso di non mettere un limite al periodo di permanenza, ma al contrario di voler condividere la vita dei poveri della favela, vivendo con e come loro. E dopo un breve periodo con le suore della Neve in due paesini, Belo Oriente e Pavao, sceglie di spostarsi a Teofilo Otoni, e di andare ad abitare proprio nel quartiere di Vila Esperança, là dove si era creata la fucina di una comunità nuova, il "mutirao" delle case e la solidarietà tra le persone. Là Anna Maria innanzi tutto impara e si mette a disposizione. Lavora all'APJ, come operaia del laboratorio di panetteria, e vive con le persone del luogo. Impara non solo la lingua, ma a comprendere ciò che la circonda, a conoscere la realtà e cerca di trasmetterla ai volontari che continuano ad arrivare per brevi periodi.
Scopre che bisogna mettere a disposizione ciò che si è, prima di ciò che si ha, che bisogna diventare persona tra le persone, prima di fare qualche cosa e di svolgere una attività . Sono anni di lavoro con le persone del quartiere, con quei leader semplici ma incisivi. Insieme si riuniscono, affrontano i problemi, valutano le possibilità di cambiamento e insieme decidono che forse il primo obiettivo da raggiungere è dare una casa a quei ragazzini e quelle ragazzine che non hanno un riferimento famigliare, che non frequentano la scuola, che non hanno cibo a sufficienza, che non hanno un luogo per farsi una doccia, che non hanno nessuno che si accorga di loro e che li ami.
La casa che Anna Maria ha affittato nel quartiere di Vila Esperança è semplice, ma è una delle più spaziose: è lì che si inizierà ad accogliere questi bambini. Ed è lì che dopo aver visitato tutte le famiglie del quartiere ed aver deciso insieme a tutta la comunità quali sono i bambini che per primi potranno usufruire di questo spazio, inizia il progetto di Casa Nazaré il 5 gennaio 1998, con trenta tra bambini e bambine. Il nome Casa Nazaré verrà scelto qualche mese dopo, perchè all'inizio c'è da pensare a ben altro: chi preparerà loro da mangiare? Chi li aiuterà nei compiti? Chi seguirà l'organizzazione? Tutto si risolve sempre in riunione, nelle decisioni comuni che nascono dall'amalgama delle difficoltà con le potenzialità. Si sceglie l'insegnante, si individua la cuoca, ma tutte le persone sono disponibili a dare una mano a far crescere questa Casa Nazaré, per far crescere i bambini e le bambine che la frequentano. Lo spazio però è poco e già si sente la necessità di una casa più grande. Le famiglie bussano alla porta chiedendo di accogliere anche i loro figli.
E chi sostiene economicamente tutto questo? Chi paga gli stipendi? Chi paga il cibo, e i vestiti, e i libri e tutte le altre necessità ? Ecco che in Italia, mentre il progetto si delinea in Brasile, cresce anche l'associazione Ate Logo che intanto si è trasformata nella più identificabile e più organizzata associazione Uai Brasil, ora "Uai Brasil - per una solidarietà senza confini Onlus". Ed è proprio attraverso gli aiuti che Uai Brasil riceve in Italia da nuovi amici e sostenitori, nuovi adottanti, che nel 2000 già si riesce ad inaugurare la nuova Casa Nazaré, aprendo le porte a 120 bambini. Nuovi volontari arrivano. Si pensa a nuovi progetti. Si realizzano nuove possibilità . Ed il sogno continua, sia in Brasile, sia in Italia.
Possiamo quindi accomunare, se pur realizzato in modo diverso, e attraverso un cammino molto lungo ed articolato, il sogno di un fondatore di una città , che voleva vedere un diverso modello di convivenza umana, con il sogno di chi, ancora oggi, crede nella possibilità di giustizia e di fratellanza, e lotta perchè ciò avvenga.